CODA: Quando i gesti esprimono più delle parole

Quando ho visto I segni del cuore, non sapevo fosse un remake del film francese La famiglia Bélier (anche perché ammetto di non aver mai visto l’originale), ma appena dopo averlo saputo, è stato come se qualcosa avesse fatto click. Questo perché se dovessi descrivere questo film con una sola frase, direi che si tratta della perfetta reinterpretazione americana, nel bene e nel male, di un cult.

Il film è diretto e riscritto da Sian Heder, che ha ottenuto la vittoria ai BAFTA e una nomination agli Oscar, entrambe nella categoria adapted screenplay (una delle tre nomination all’Oscar per il film, anche candidato come Miglior film) e racconta la storia di Ruby Rossi (Emilia Jones, candidata ai Critics Choice Award e al Premio BAFTA), cui fa riferimento il titolo in lingua originale del film, CODA, acronimo di Child of Deaf Adults: Ruby infatti è l’unica udente della famiglia e da sempre fa per loro da interprete, per comunicare con il resto di una società non proprio disposta ad aprirsi al dialogo con chi è diverso. Al punto tale che la ragazza, ancora adolescente, si ritrova piena di responsabilità da adulta, costretta a dialogare con i colleghi dei genitori o addirittura ad accompagnarli ad imbarazzantissime visite mediche. Ma la vera passione di Ruby è il canto, passione non condivisa dai genitori, che la vedono come un allontanamento dalla famiglia, visto che non possono condividerla con lei.

CODA riprende la trama de La famiglia Bélier in maniera abbastanza fedele; le differenze più evidenti si trovano nella realizzazione del film. Il film francese del 2014 fu infatti fortemente criticato dalla comunità sorda francese per il fatto che gli attori in realtà erano tutti udenti e non avevano dato una buona rappresentazione della situazione. In CODA invece, la famiglia di Ruby è interpretata da Troy Kotsur, Marlee Matlin e Daniel Durant, non solo non-udenti, ma anche nomi di rilevo in questo ambito, che con performance cariche di espressività sono riusciti a dimostrare che non servono le parole per trasmettere emozioni. Chi immaginava che la lingua dei segni potesse esprimere così tanto, arrivando addirittura a “cantare”? Questo è anche valso al film la vittoria ai SAG Awards per il miglior cast cinematografico. A questo proposito, merita una menzione la performance di Troy Kotsur, interprete dell’eccentrico Frank Rossi, padre di Ruby, che ha guadagnato una nomination agli Oscar nella categoria supporting actor. È stato nominato nella stessa categoria anche ai BAFTA, dove è riuscito a ottenere la statuetta, e ai Golden Globe, dove è stato battuto da Kodi Smit-McPhee, l’attuale favorito nella categoria, per Il potere del cane. Al di là di una vittoria comunque, anche solo la nomination è un risultato meritato (forse l’unico fra tutti), visto che Kotsur è indubbiamente riuscito a rubare la scena anche senza dire una parola.

Questo elemento di inclusività, molto caro all’ambiente di Hollywood (tanto che ricordiamo la sordità era stata portata agli Oscar lo scorso anno con Sound of Metal, fra i migliori di quell’anno a parer mio!) ha sicuramente influenzato le nominations, specialmente quella a Miglior Film.

Tuttavia, al di là del tema e dell’innegabile bravura di alcuni membri del casto, si tratta di un film (coming-of-age comedy-drama) che, per quanto dolce e malinconico, fallisce nel realizzare a pieno tutto il suo potenziale. Ciò che manca di più è un’impronta personale della Heder che possa dare al film un tono più “memorabile”, che possa far prendere a CODA le distanze dai classici remake americani, appunto. Se da un lato, infatti, si può giustificare il mancato approfondimento sul punto di vista della famiglia con un maggiore focus sulla stessa Ruby e sul suo sentirsi fuori posto, niente giustifica il fatto che anche questo punto di vista non riesce ad avere la presa che dovrebbe. Proprio quello del sentirsi fuori posto, infatti, viene presentato come un tema centrale, ma in realtà finisce solo per essere usato come espediente narrativo, attraverso menzioni di bullismo o di insulti che anziché essere affrontate e sviluppate vengono subordinate ad un favolistico “e vissero tutti felici e contenti”. Certo, ci sta il lieto fine, anche considerato il genere, ma non se si finisce per stemperare in modo un po’ forzato scene più drammatiche con sequenze e dialoghi al limite dello stereotipo, che sembrano proprio essere stati presi dalle commedie romantiche più commerciali.

Nel complesso, comunque, è un film leggero, magari capace anche di far scendere una lacrima sul finale, ma sicuramente niente di eccezionale e di certo non il tipo di film che ci si aspetterebbe di veder vincere agli Oscar.

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