Ci sono diversi elementi che rendono il Macbeth firmato da Joel Coen un capolavoro su cui soffermarsi, che necessita il suo spazio e che spicca innegabilmente tra i film in corsa per gli Oscar quest’anno.

Un primo punto da chiarire, molto dibattuto anche dalla critica internazionale, è sicuramente in che termini il poliedrico regista a due teste, che con questa perla dimostra di saper “viaggiare” tranquillamente anche in solitario, si misura con Shakespeare. Certamente la regia essenziale e minimalista, che dialoga continuamente col cinema d’avanguardia (in particolar modo con l’espressionismo tedesco), lascia il giusto spazio alla tragedia shakespeariana, concedendo respiro all’opera originale in una trasposizione fedele e rispettosa. Riesce a portare in luce il cuore del dramma in maniera ineccepibile, ma non si può dire che faccia “un passo indietro” rispetto al dramma stesso. Coen non si fa da parte scomparendo dietro il titanico drammaturgo britannico, ma anzi riesce a dialogare coraggiosamente e ininterrottamente col Macbeth shakespeariano. Una trasposizione di cui, sì, avevamo bisogno; perché se da un lato lascia emergere l’anima dell’opera originale, porta una firma, una cifra stilistica che, proprio nel suo essere minimal, è decisa e riconoscibile.
Firma che risalta con vigore specialmente se contestualizzata nella cinematografia dei fratelli Coen. Infatti, pur sembrando in forte discontinuità formale e stilistica, a livello contenutistico e concettuale ci ritroviamo nell’occhio del ciclone della poetica dei registi statunitensi: l’uomo gettato nell’incertezza, che o si ritrova immobile di fronte a questo “maladjustement”, in balia del caso senza una linea da seguire (Il grande Lebownski); oppure portato a confrontarsi con un nemico invincibile, specchio delle sue paure, dei suoi dubbi, delle sue angosce (Non è un paese per vecchi). Nel caso nel Macbeth, l’unica risposta per rimediare all’incertezza esistenziale, a quella falla che si apre nel momento della trappola/profezia delle streghe, è quella del potere e della sopraffazione, del male in senso assoluto.

Per quanto riguarda gli aspetti più tecnici e le nominations dell’Accademy, credo sia doveroso partire dall’acclamata interpretazione di Denzel Washington. L’attore si è infatti più volte confrontato con Shakespeare a teatro, basti pensare che il suo debutto nel mondo della recitazione risale al 1979 con Coriolano. Negli anni successivi ancora in veste shakespeariana in Riccardo III e poi ancora nel Giulio Cesare. Insomma, la scelta di Joel Coen si è rilevata coraggiosa ma decisiva, vedremo se l’attore, già due volte premio Oscar (Glory, 1990; Training Day, 2002) si aggiudicherà la terza statuetta.

Per quanto riguarda la scenografia e la fotografia, colpisce la sinergia tra gli scenografi Stefan Dechant e Nancy Haigh, il fotografo Bruno Delbonnel (già noto per Il favoloso mondo di Amelie e Big Eyes, già collaboratore di Joel Coen in La ballata di Buster Scruggs) e la regia. Come in tutti i film d’autore, queste figure lavorano in maniera organica, gli elementi scenografici entrano geometricamente e con forza nello schermo, il bianco e nero è asciutto, essenziale ma elegante e i movimenti di macchina sono puliti e carichi di riferimenti al grande cinema europeo del novecento. Come già accennato i rimandi sono tanti ed è innegabile che l’intera produzione, traghettata da Coen, strizzi l’occhio all’espressionismo tedesco senza scadere in malinconici esercizi di stile, con accenni sempre sottili e atmosfere goticheggianti che sono ben in linea con la sceneggiatura shakespeariana. Insomma, pur mancando inspiegabilmente la nomination per la miglior regia, ci si augura un trionfo per gli oscar tecnici.